RECENSIONE

di I BARBARI di Alessandro Baricco

di Rosella Dossena

ALESSANDRO BARICCO, I barbari, saggio sulla mutazione, Feltrinelli 2008.

Questo libro raccoglie un saggio in trenta puntate pubblicate da “la Repubblica” dal 12 maggio al 21 ottobre 2006, completato da un capitolo di Note e uno di Date a cura di S. Beltrame e C. Feltrami.

I barbari del titolo non sono tanto, come verrebbe da pensare subito, gli stranieri, le nuove popolazioni immigrate la cui presenza sul nostro territorio scatena le più impensabili reazioni. Certo, anche questi in qualche modo rientrano nella categoria, ma i barbari di cui scrive Baricco appartengono alla società occidentale, si fanno avanti nella nostra società, in maniera subdola (ma neanche tanto) e avvertita come pericolosa o scandalosa. Il sottotitolo di questo scritto, saggio sulla mutazione, chiarisce meglio del titolo l’argomento trattato: si avverte, da parte di molti, con timore, che è in corso un cambiamento, per alcuni epocale, che riguarda nel profondo la nostra civiltà.
Valori condivisi per lo meno da due secoli, stanno scomparendo, lasciando il posto a qualcosa di nuovo che la nostra civiltà considera non-valori. L’autore ammette di non sapere spiegare le motivazioni di questa mutazione, ma può coglierne alcuni aspetti attraverso certi comportamenti all’interno della società.

Passa così in rassegna alcuni ambiti nel campo della quotidianità, per mostrare quanto inutile sia arroccarsi su posizioni di principio, anche se di per sè più che positive: ci mostra che la mutazione è sempre in atto ed è sempre avvenuta, in ogni tempo: o una civiltà si modifica o rimane inerte e sparisce come i dinosauri.
E’ interessante l’itinerario che Baricco fa; parte dal vino (da bevanda per pochi e tipicamente mediterranea a bevanda che ha conquistato il mondo: il vino hollywoodiano), passa poi al calcio (che con i suoi imbarbariti comportamenti ha posto fine all’idea dello sport come nobile ed onesta competizione), ai libri (dalla lettura d’elite ai best sellers), alla musica classica, alla comunicazione tramite internet, al valore dell’esperienza e della fatica.
Arriva a definire alcune caratteristiche dei nuovi barbari che così riassume: “complice una precisa innovazione tecnologica, un gruppo umano sostanzialmente allineato al modello culturale imperiale, accede ad un gesto che gli era precluso, lo riporta istintivamente a una spettacolarità più immediata e a un universo linguistico moderno e ottiene così di dargli un successo commerciale stupefacente” (p. 43).

Ed il successo è il nuovo valore di questi barbari, privi di senso della storia, che se ne fregano dell’esperienza passata, ma destinati a sopraffare con i loro non-valori ogni altro atteggiamento. In realtà non sempre e non tutti questi atteggiamenti che noi (civili) consideriamo incivili e dunque negativi lo sono; e nemmeno sono sempre superficiali, come noi pretendiamo, e privi di anima coloro che li mettono in pratica. Del resto è divertente il giudizio (riportato a p. 27) che un critico musicale inglese, contemporaneo di Beethoven, dava della musica di quest’ultimo, ed in particolare della Nona Sinfonia: “Eleganza, purezza e misura, che erano i principi della nostra arte, si sono gradualmente arresi al nuovo stile, frivolo e affettato, che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato. Cervelli che, per educazione e abitudine, non riescono a pensare a qualcosa d’altro che i vestiti, la moda, il gossip, la lettura di romanzi e la dissipazione morale, fanno fatica a provare i piaceri, più elaborati e meno febbrili, della scienza e dell’arte. Beethoven scrive per quei cervelli, e in questo pare che abbia un certo successo, se devo credere agli elogi che, da ogni parte, sento fiorire per questo suo ultimo lavoro” («The Quarterly Musical Magazine and Review», 1825).

Chi siano questi barbari (che vengono definiti mutanti con le branchie, che vivono sott’acqua), cosa rappresentino e quale sarà la sorte loro e nostra ci è detto nell’ultimo capitolo, l’epilogo appunto, in cui l’autore raccoglie tutte le sue riflessioni e dà una sua risposta a queste domande, pur rendendosi conto di lasciare aperti ancora molti interrogativi; lo fa raccontando della grande muraglia cinese. Questa, costruita tra XV e XVI sec., nacque dall’ossessione della dinastia Ming di difendersi dalle scorrerie dei nomadi del nord, costruendo un muro che corresse dal mare alle più lontane province occidentali. A Nord c’erano i barbari che praticavano la razzia, lontani mille miglia dalla raffinata civiltà cinese; ogni tanto, spinti dal bisogno, si facevano vivi ai confini, o per commerciare o per combattere. L’impero cinese poteva agire nei loro confronti scegliendo fra tre opzioni: piegarsi a commerciare con loro, (ma l’imperatore celeste non si siede a contrattare con un barbaro, Dio non tratta con i selvaggi); oppure, attaccare, ma l’attaccare, come il commerciare, in qualche modo costringeva l’impero a misurarsi con l’esistenza di gente diversa; e quando una civiltà lotta con i barbari lo fa per mantenere la propria identità, “perché l’incubo della civiltà non è essere conquistata dai barbari, ma esserne contagiata: non riesce a pensare di poter perdere contro quegli straccioni, ma ha paura che combattendoci può uscirne modificata, corrotta”. (p. 174).
Così i cinesi arrivarono alla terza opzione: la costruzione della grande muraglia, l’unico sistema di combattere senza sporcarsi le mani, senza contagiarsi. Era l’invenzione di un confine. Era la materializzazione dell’idea che l’impero fosse la civiltà e tutto il resto barbarie; non difendeva dai barbari: li inventava. Non proteggeva la civiltà: la definiva (del resto, dal punto di vista militare, fu un insuccesso: i barbari, quando decisero, entrarono).

Tornando a noi, l’autore afferma che qualunque cosa stia accadendo, quando sentiamo in pericolo la nostra identità alziamo la grande muraglia. Noi di qua, i barbari di là. Pensiamo sia una battaglia che possiamo anche perdere, l’importante è non perdersi. In realtà non siamo di fronte ad uno scontro, siamo di fronte ad una mutazione; non un leggero mutamento, ma una mutazione per sopravvivere. Ci troviamo di fronte a homines novi: da loro viene l’energia per attuare la mutazione; da loro viene la convinzione che senza la mutazione saremmo dei dinosauri, finiti. E’ un cambiamento che qualcuno finge di non vedere ma che a molti invece fa paura perchè sembra un imbarbarimento senza contropartita: con stupore guardano affermarsi un’idea diversa di esperienza, la superficialità al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, la comunicazione al posto dell’espressione, il piacere al posto della fatica. E’ quanto sta accadendo intorno a noi: è l’invasione dei barbari. Ma è inutile cercare di non vedere e idolatrare un confine che non esiste: non c’è confine, non c’è civiltà da una parte e barbari dall’altra, c’è solo l’orlo della mutazione che avanza: “Siamo mutanti, tutti, alcuni più evoluti, altri meno, c’è chi è un po’ in ritardo, c’è chi non si è accorto di niente, chi fa finta di non capire... Ma eccoci lì, tutti quanti, a migrare verso l’acqua” (p. 178).