Inquieti: perchè?

di Edoardo Edallo

Premessa

L’invito inviato è nella forma dei toni apocalittici ed estremi della miglior televisione berluschina, compreso il sondaggio d’opinioni. I fatti sono dati per già interpretati, assunti nella visione ideologica dell’inquietudine inevitabile, dati i tempi.

Perchè?

Uno può anche non essere inquieto. Chi ha detto che bisogna essere inquieti?
Inquietudine è un termine psicologico. Ogni fattore può scatenarla, anche gli uccellini all’alba, che dovrebbero dare gioia. Se uno è inquieto di suo, trova motivi d’inquietudine in fatti neutri e a trasmettere una visione del mondo tragica e pessimista.
L’inquietudine psicologica porta alla ricerca spasmodica di segni dei tempi, secondo il principio che chi cerca trova (e i cocci sono suoi). Infatti i segni trovati devono necessariamente essere epocali. E si tratta proprio di cocci, perchè l’inquieta epocalità moderna consiste nello scoprire che ci sono in giro solo cocci sparsi senza nessuna voglia, o capacità, di costituire (o ricostituire) un insieme.
Il segno epocale, frammentato, introduce un’ancor più acuta inquietudine, accorgendosi di non poter essere altro che inquieto, perchè immerso in un vortice senza pausa nè uscita. Vedi Leopardi:
assai felice / se respirar ti lice /... ecc.
Allora la risposta al titolo è: inquieti perchè vogliamo essere inquieti. Perchè cerchiamo ogni occasione per esserlo. Perchè esasperiamo ogni piccolo cenno fino a renderlo incontrollabile.

Invece

Il problema di sempre di ogni cultura (e religione) è di controllare e superare l’inquietudine.
L’umanizzazione del mondo, propria di ogni cultura, vuole la rassicurazione dall’inquietudine, che si manifesta potentemente nell’azione. Allora la cultura buddista elimina il fare, mentre l’Occidente non lo demonizza, però è, costretto a spostare l’inquietudine sul piano metafisico (S. Agostino), come desiderio di assoluto (lo dice anche Massimo)...
L’accettazione della condizione umana: finitudine e non-assolutezza, quindi fiducia in Dio (o comunque in qualcosa di superiore) è condizione contro l’inquietudine.
Solo in questo senso la risposta: inquieti perchè in ricerca è soddisfacente. Mentre non lo è se adombra l’idea di individualismo spinto (contro ogni comunità - cultura) propria del moderno. Così come di potenza assoluta della scienza-tecnica (dove si trova la ricerca ufficiale).
Serve dunque una pedagogia pacata (non esasperata) che parta dalla cultura (dalla nostra), per proporre gli eventi del moderno non come tragicamente inquietanti, ma come segni da analizzare serenamente e criticare positivamente, cercando soluzioni dove siamo in grado di proporle.
Serve un discorso di costruzione (e ricostruzione) di civiltà, al di fuori del quale resta solo la fuga dal mondo (memoria di isterismi non solo medievali).

Motivi

I Galli temevano che il cielo gli cadesse sulla testa: era un’inquietudine derivata da scarsa sicurezza sulla statica del mondo e sulle ire degli dei, materie entrambe di qualche incertezza.
Di qui la ricerca di comportamenti adatti a scongiurare gli eventi funesti, per avere davanti una ragionevole prospettiva di prevedibile tranquillità, compresa l’ansia di conoscere il futuro.
I motivi storici sono vari, dall’incertezza sui raccolti al timore di una guerra imminente; ma tutti portano il segno della fragilità umana e il conseguente sforzo per irrobustirla.
Qualcuno dirà: “Che ci frega dei Galli”? Invece frega, perchè oggi non è diverso: gli strumenti sono più potenti, le conoscenze più precise, e l’inquietudine rimane, compresa la curiosità sul futuro, affidata alle statistiche (ma persistono anche gli oracoli).
Il moderno non è diverso dall’antico, quanto a inquietudine e incertezza. E non c’è niente di epocale, nè pro-Occidente, nè contro. Ci sono solo culture diverse, che danno (e hanno dato) risposte diverse a una stessa domanda che è, alla fine, domanda di senso.

Invito

Il rapporto fra la crisi che sta impoverendo la classe media occidentale e le difficoltà (impensabili) su temi ecclesiali e civili è arduo; si tratta di un passaggio acrobatico, a meno che non si voglia affermare l’assoluta dimensione psicologica (e tragica) dell’incertezza. La crisi non è evidenziata, ma da evidenziare, proprio a partire dal termine crisi.
La caduta del modello di vita americano: forse andrebbe spiegato sia cos’è il modello di vita americano (ammesso che esista e che sia uno solo); poi dov’è la caduta, in cosa consiste, come la si registra (magari con qualche informazione di prima mano - in proposito consiglio la lettura di un libro del 1944 di M. Mead, America allo specchio, Il Saggiatore, Milano 2008, € 19,00)
Come detto sopra, la storia non fa che confermare i dati etnologici, concordi nel constatare come il processo di umanizzazione del suo pezzo di mondo, da parte di ogni cultura, nasca dall’enorme sproporzione fra la piccolezza umana e la vastità del cosmo. Tutte, in ogni tempo, sono in balia delle onde, per questo diventa un modo di dire. Tutte, in ogni tempo, cercano sicurezze. E non è una cattiva idea, purché non diventino illusioni o ideologie.

Contributi

Sul piano spirituale, anche Massimo cita S. Agostino, che è il nodo.
Ma mi pare ci fosse anche una sua reazione al sacco di Roma di Alarico, che vide il crollo della città eterna, solo ideologicamente sicura. Un po’ peggio delle torri gemelle di New York, o no? Infatti siamo a questi punti (o confronti): qui o a Wall Street è caduto il mondo occidentale? O non piuttosto la sua caricatura giornalistica? O non è la lettura (ideologica) di rivalsa della caduta del muro di Berlino? Che non è ancora adeguatamente digerita?

Citazioni (da “Domenica” de Il Sole-24 ore, 19 aprile 2009)

Noi ragioniamo in base alla teoria della probabilità; un evento di cui non abbiamo esperienza diretta diventa improbabile. (p.31)
Le crisi e le catastrofi non accadono improvvisamente. L’approccio probabilistico alla gestione del rischio diventa un lusso. Cosa si dovrà pagare per ridurre le conseguenze della catastrofe? (p. 31)
Le teorie filosofiche sono quasi sempre sbagliate: errori argomentativi, asserzioni ingiustificate, generalizzazioni premature sono un rischio permanente. (p. 32)
I segni di crisi s’infittiscono: le discordie interne, il crollo di una superpotenza, la bancarotta di istituzioni di credito prestigiose; da ultimo la guerra (Oggi? No, fine sec. XV- N.d.T). Ma dalla crisi nasce un’intensa stagione culturale e artistica. L’anima insoddisfatta dell’Umanesimo inventa una teologia che contrasta le false certezze della scolastica. (p. 39)